Numerose testimonianze di affetto e stima alla cerimonia in suo ricordo a Villarbasse
Villarbasse – Eleganza, gentilezza, studio, impegno civile: sono alcuni dei tratti associati alla personalità di Luciano Tamburini, emersi durante la cerimonia in suo ricordo voluta dal Comune a 11 anni dalla scomparsa (il decennale cadeva nel 2020 e non si è potuto tenere a causa della pandemia), che si è svolta domenica 10 ottobre nella chiesa di san Nazario a Villarbasse, condotta dall’assessore alla Cultura Lino Casciano e con la presenza di Anna Tamburini.
Il proficuo lavoro di Tamburini nell’amministrazione locale è stato sottolineato dal sindaco Eugenio Aghemo, in particolare ricordando quando nel 1978, da primo cittadino, avviò il progetto per la costruzione della scuola media. Nino Boeti, che lo incontrò da presidente del Consiglio regionale del Piemonte, lo ha descritto come un intellettuale di rilevanza regionale e nazionale, caratteristica richiamata da Albina Malerba, presidentessa del Centro studi piemontesi, e dalla storica dell’arte Arabella Cifali.
Molti interventi hanno sottolineato la grande capacità di analisi di Tamburini e l’ampio orizzonte dei suoi studi, dalle ricerche sulle chiese di Torino a quelle su De Amicis e su Jules Verne (con preziose testimonianze di Piero Gondolo della Riva e Piero Leonardi), dalla musica (nelle parole del maestro Roberto Cognazzo che ha arricchito la cerimonia con brani eseguiti all’organo) al cinema (Aldo Rizza, presidente dell’Unitre, ha ricordato la proiezione del «Settimo Sigillo» di Ingmar Bergman per gli studenti di Rivoli nei turbolenti anni Settanta).
Tamburini ha manifestato una dedizione profonda per la cultura, dedicandosi con grande passione anche alla storia di Villarbasse, come hanno ricordato Maria Paola Stola Ariusso, che da lui prese il testimone di presidente della proloco, e Piera Capello, presidente degli Amici di San Nazario, associazione che vide «il Dottore» tra i soci fondatori, impegnato anche a decifrare una stele di Palazzo Mistrot.
La profonda umanità di Luciano Tamburini si celava dietro una riservatezza tipicamente piemontese; egli si prodigava per avvicinare i giovani allo studio, credeva fortemente nella scuola (Pier Aldo Bona, insegnante e presidente di Progetto Davide, ha ricordato l’apertura della biblioteca comunale, da lui fortemente voluta), organizzava incontri culturali, avviò un cineforum, e accompagnò i ragazzi in molte attività, denotando una grande attenzione per le nuove generazioni, come hanno ricordato Valter Cavigliasso, Laura Riviera e Rita Sola.
A suggello della cerimonia si è svolta la presentazione del libro «Villarbasse: l’ultima dimora», realizzato da Virginia Brayda Gozzi, Giuseppina Coletto Baldovino e Diego Bevilacqua su scritti e appunti proprio di Luciano Tamburini sulla storia dei cimiteri di Villarbasse, ulteriore dimostrazione del suo amore per la cultura e per il suo paese.
Era l’Inverno 1974/75, con Luciano c’era già familiarità e sovente nella mansarda che allora abitavamo, egli ed Anna venivano a trovarci. Ed era già un’eccezione; infatti mi raccontò un giorno che aveva un grande amico a Torino, ma che né l’uno né l’altro aveva mai sentito l’esigenza di trovarsi nelle rispettive case. Era un’amicizia epistolare e telefonica, ma non per questo meno intensa. E questo era molto torinese.
In quei giorni insegnavo al Liceo Giovanni XXIII di Rivoli – su al Seminario che per una pruderie scaramantica laicista è innominabile, tanto che si deve allocare al Castello – che poi qualche buontempone, in vena anticlericale ha pensato di nominare Charles Darwin.
Erano giorni turbolenti: assemblee scioperi, cortei interni ed esterni, comitati rossi composti da giovani attratti da qualche insegnante accesamente schierato. C’erano molteplici sfumature di rosso, per la qual ragione il vice-preside, che era del PCI, passava per uomo d’ordine, mentre altri appartenevano a gruppi dell’estrema (come quel professore di Matematica che entrava in aula con il bottiglione di vino o come quella professoressa di Lettere che non solo auspicava la rivoluzione finale, ma – oltre all’eliminazione dei crocifissi dalle aule – anche l’espulsione di Dio dalle menti degli studenti).
Con Luciano, quando ci si incontrava, parlavamo di tutto ciò. Egli era cattolico, ma anche socialista; di quel socialismo umanitario che era stato fecondo in molti scrittori ed eruditi torinesi. Eppure con Dio egli aveva ben a dolersi per la scomparsa del figliolo amato. I padri gesuiti del Sociale, insegnanti del figlio, mi raccontarono delle sue sofferenze, ma anche della sua speranza. Ci scambiavamo impressioni e lui, che era più anziano di me – non solo per l’età, ma per l’esperienza maturata negli anni – esprimeva giudizi e suggeriva comportamenti.
Il disordine era tale che, alla fine, oltre agli studenti delle mie classi nelle ore di filosofia venivano quelli di altre classi e mi ritrovai con una settantina di studenti. Venne allora indetta un’assemblea e quella tale professoressa di Lettere si scagliò con violenza contro Maria, la Madre di Gesù intesa come il modello di una femminilità schiava ed inventata dal Cristianesimo: ideologia totalmente asservita al potere. Io allora dissi che me ne andavo per impedirle di continuare a dire così grossolane e indecenti blasfemie. Ed uscii. Gli studenti abbandonarono anch’essi l’assemblea tranne un piccolo numero di attivisti.
Luciano mi incoraggiò ad approfittare del momento per dare un contributo più serio e duraturo a ciò che era avvenuto. Egli era sempre attento alla preoccupazione pedagogica; ci credeva ed apprezzava la presenza dei giovani di cui cercava di coltivarne il bene intrinseco del loro animo, per farlo emergere. Così avvenne che parlandone stabilimmo un’azione straordinaria per quei tempi.
Su suo suggerimento organizzai una proiezione mattutina di un film presso il cinema Carnino in Piazza Martiri della Libertà a Rivoli. Il film – di Ingmar Bergman – lo scelse lui: Il settimo sigillo.
Scrisse anche una breve presentazione e partecipò alla rappresentazione. Rappresentazione che determinò una svolta – almeno in quello scorcio di anno – in tutto il Liceo. Sensibilissimo era Luciano e fu per me di grande aiuto nell’azione di quei giorni a scuola dove un piccolo gruppetto di insegnanti – quello di Religione, quello di Scienze – riuscì a ristabilire un certo ordine nello studio, sfidando boicottaggi ed anche attentati (incendiarono anche o danneggiarono qualche auto, insultavano gridando slogan e scagliando oggetti, minacciavano telefonicamente chi si opponeva a quella tragica farsa di una falsa rivoluzione, quella rivoluzione che Bellocchio nel suo film biografico, Marx può aspettare ha così ben descritto). Luciano rappresentò un aiuto straordinario. Egli aveva capito – dato il suo amore per gli scrittori russi – cosa avviene quando si afferma la mentalità che Fëdor Dostoevskij descrive ne I Demoni. Ma, fra i ricordi di lui che mi sovvengono ce n’è un altro che a mio parere ci aiuta a ricordarne con affetto, la sensibilità dell’animo; una sensibilità concreta – lui così schivo – per le persone. Un giorno mi disse che durante la guerra, dopo lo sbandamento dell’8 Settembre 1943, quando l’esercito abbandonato si liquefece, egli era sotto le armi e come tutti i suoi commilitoni si ritrovò in una situazione di crollo di ideali, di incertezza e di preoccupazione viva per ciò che sarebbe accaduto. Aderì alla Resistenza e nei giorni seguenti il 25 Aprile del 1945 – quando si insediarono i tribunali popolari e cominciò la caccia ai vinti – si trovò coinvolto nella fucilazione di due ragazzi della Repubblica fascista che, essendo stati catturati e non essendosi arresi erano stati condannati sommariamente a morte. Luciano si portò dietro quella tragedia che ancora negli ultimi tempi lo angustiava. Uomo magnanimo non poteva certo nutrire odio, né disprezzo per alcuno. Lo ricordo così: è stato un onore conoscerlo.
Aldo Rizza